Dicci qualche cosa di te.
Mi chiamo Gabriele Ferrari sono nato a Casalpusterlengo il 24 Settembre del 1949. Tecnico Telecom in pensione, sono sposato con Carla Grassi con la quale ho due figli, Cristina e Gianluca e due splendide nipotine Giorgia ed Alice. Dal 1989 sono presidente del Gruppo Podistico Casalese.
Quando hai iniziato a correre?
La prima corsa vera l’ho fatta a militare alle Cascine, una competizione tra caserme. Non sapevo di saper correre ma in quell’occasione arrivai secondo. Poi da “borghese” ho fatto la prima corsa trascinato dall’amico Giuseppe Ferri, il 12 Giugno del 1971 a Casalpusterlengo dove la Pro Loco organizzava una 24 chilometri. Sino al 1975 ho corso nelle occasioni che si presentavano nel lodigiano e province limitrofe, raccogliendo anche qualche soddisfazione. Poi il matrimonio, la casa, i figli, mi hanno “consigliato” di sospendere sino al Settembre 1981 quando sono arrivato al G.P. Casalese che nato nel Febbraio dello stesso anno.
Cos’è per te la corsa e perché corri?
Inizialmente pensavo fosse una moda del momento che avrei abbandonato poco dopo, poi invece, partecipando alle corse (inizialmente tutte competitive) ho conosciuto nuovi amici, nuove realtà ed ho scoperto che mi piaceva parecchio, quasi più del calci che avevo abbandonato. Il perchè corro è difficile e facile da spiegare nello stesso tempo. Perché mi diverto, perché provo ogni volta nuove sensazioni, perché mi ha dato il modo di conoscere un esercito di persone che condividono la mia passione.
Maratone in giro per il mondo, competitive su pista, non competitive, tanti Km percorsi e adesso tanto tempo riservato agli altri e a tutti i dettagli organizzativi. Ma come fai a non stancarti mai?
Quando ho smesso di correre ho sofferto per parecchio tempo, soprattutto quando vedevo gli amici che tagliavano il traguardo di una maratona con quel sorriso soddisfatto che ho provato per 44 volte. So cosa si prova quando si arriva su quella linea bianca dopo aver sofferto per 42 chilometri, ogni volta mi dicevo “questa è l’ultima, ma chi me l’ha fatto fare?” poi un’ora dopo pensavo alla successiva. E’ dura, è difficile dover rinunciare, ma la legge naturale degli anni che passano e gli acciacchi che si presentano sempre più frequentemente, impone di far funzionare anche il cervello e da lì la decisione di fermarsi. Smettere di correre, di competere, si può fare anche se con sacrificio, ma non potevo abbandonare un mondo che mi ha dato tanto. Di stanchezza non ne ho mai sentita, però a volte succedono cose che mi fanno riflettere e mi chiedo il perché lo faccio, per cosa e per chi. Sono momenti di sconforto quando capitano problemi apparentemente insormontabili, come le nuove responsabilità che ogni tanto calano dall’alto o qualche dissidio con i soci del gruppo. In quei momenti viene voglia di abbandonare tutto ma poi esce l’orgoglio e si accetta la sfida provando a sistemare tutto anche se non sempre ci si riesce. Una cosa importantissima in queste occasioni sono le persone che si hanno intorno. Se sono valide i problemi si risolvono in fretta.
In 36 annidi attività hai visto nascere e crescere il mondo della corsa. Ma cosa è cambiato nel tempo? Come si è evoluto?
Sono cambiate molte cose. Innanzitutto la mentalità e la cultura dello sport in generale. Quando ho iniziato, le persone mi vedevano per strada con i pantaloncini corti ed un paio di Superga (ciabatte) e mi prendevano per matto. Qualcuno, per non farsi vedere, si spostava in macchina fino alla campagna. E’ cambiato l’abbigliamento, prima si usava quello che c’era in casa, oggi si spendono fior di quattrini per avere le scarpe di marca o quelle dei campioni, come se fossero le scarpe o la canotta a farti andare più forte. E’ cambiato il mondo di proporsi alla corsa. Una volta si correva la domenica e al massimo un giorno infrasettimanale se si aveva tempo, ma non c’era nessun programma e lo si faceva per stare in compagnia con il solo gusto di correre. Ora si esce come minimo due o tre volte la settimana, si seguono tabelle e diete ferree, si controllano i battiti, la velocità, si programmano le gare da fare. Si è più preparati e più controllati e questo è sicuramente positivo però forse si è perso lo spirto primordiale della corsa. Il dotato o il meno dotato lo si trova ancora nelle competitive Fiasp ma anche lì manca il ricambio generazionale e difatti sono sempre di più i capelli bianchi e sempre meno i giovani.
Fiasp, Fidal, CSI, iniziative extra sportive. Come fai a fare tutto così bene?
Se lo faccio bene o male lo lascio dire agli altri, di sicuro quando intravedo la possibilità di imbastire una nuova iniziativa, un’opportunità che potrebbe soddisfare qualche persone, non mi tiro mai indietro e faccio sempre le mie proposte che però da sole non bastano, così come non basto solo io. Per far si che il progetto vada in porto serve l’impegno di più persone. Io ci metto tutto me stesso, senza risparmiarmi, ma non sempre può bastare. A Maggio ho assunto la presidenza del comitato territoriale Fiasp di Lodi, è un compito difficile, ma se tutti i componenti fanno la loro parte tutto diventa più facile. Per la Fidal il compito è diverso perché ho maggiori responsabilità dirette per il controllo delle visite mediche, dei tesseramenti e delle iscrizioni quindi posso contare solo su me stesso stando attento a non sbagliare perché pagherei in prima persona.
Presidente del GP Casalese, Presidente del Comitato Fiasp Lodigiano e adesso consigliere nazionale. Ruoli prestigiosi e oneri importanti. Cosa dobbiamo aspettarci per il futuro del nostro sport?
Credo di aver risposto nella precedente domanda, per il futuro vedo fondamentalmente due grandi problemi. Il ricambio generazionale con la difficoltà di coinvolgere, anche nella gestione dei gruppi i più giovani e l’introduzione quasi a getto continuo di nuove norme e cavilli. Una burocratizzazione del nostro mondo che vede il suo paradosso nella presenza alle manifestazioni del defibrillatore che, a due anni dall’entrata in vigoro della legge Balduzzi, continua a subire rinvii e proroghe.
Quel è il ricordo più bello che hai legato alla corsa?
Come è facile immaginare, in 45 anni di attività ce ne sono parecchi. Ci sono quelli bellissimi legati alle competitive, quelli legati alle amicizie nate e coltivate nel tempo in questo ambiente e le piccole e grandi soddisfazioni che mi sono tolto. Se devo sceglierne uno allora dico la prima maratona corsa a New York nel 1987. La feci con la macchina fotografica in mano, non esisteva il digitale, quindi era un bel peso da portarsi dietro. Legata a questo ricordo ci aggiungo la soddisfazione di aver fatto partecipare a questa corsa tutti i componenti della mia famiglia. Cristina nel 1996 e 1997, Gianluca ancora minorenne del 1996 e per ultima mia moglie Carla nel 2007.
Cosa sono per te i limiti?
Suppongo si parli di limiti sportivi perché di limiti ce ne sono a montagne. I limiti di decenza sono quelli che più mi colpiscono o forse è meglio definirli di indecenza, come tagliare il percorso di gara, partire anticipatamente oppure danneggiare l’avversario. In questi anni ne ho viste di tutti i colori. Un limite che per me che non si dovrebbe mai superare è quello di dare più del dovuto. Mi spiego, a volte sono al traguardo a scattare delle fotografie e vedo persone stramazzare al suolo subito dopo aver terminato la corsa, stare male, non riuscire a rialzarsi. Sono condizioni a cui un atleta “normale” non dovrebbe mai arrivare perché correre ci insegna anche ad ascoltare il nostro corpo, ad aver una maggior consapevolezza di noi stessi. Sapersi fermare è importante quanto saper partire perché con la salute non si scherza. I limiti cronometrici invece sono i più belli perché danno lo stimolo per allenarsi e per fare tutti i sacrifici necessari per stabilire sempre nuovi primati personali.
Quali sono gli ingredienti per essere un buon podista?
Anche qui la cosa è molto soggettiva, se si corre contro il cronometro ci si deve comportare in un certo modo, se si corre solo per il gusto di correre è decisamente un’altra cosa. Se chiediamo a dieci podisti un parere avremo sicuramente dieci pareri diversi. La mia opinione è di divertirsi correndo o marciando, se viene meno il divertimento diventa un impegno e direi di lasciar perdere. Anche l’amicizia con altri che condividono la stessa passione può essere d’aiuto. Ecco, riassumerei con questi due principali ingredienti la mia ricetta del buon podista: divertimento e amicizia.
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